jueves, 21 de mayo de 2009

La muerte

"El miedo de vivir”

Aunque ineludible, aunque sabida, la muerte siempre llega de improviso. Y a pesar de ello, la muerte no deja dudas, la muerte da certezas; de hecho, la única certeza.

Imagina un dos de noviembre cualquiera: Los cementerios están llenos. Los muertos buscan su imprescindible papel en la necesidad de mantenerse en el recuerdo de los vivos. ¿O son los vivos los que necesitan tener presente la memoria de sus muertos? Celebrar el día de los difuntos es dejar presencia de que la relación con los muertos se basa en la memoria. Pero esto no ha sido siempre así.


La relación del hombre frente a la muerte ha cambiado a lo largo del tiempo. Pero para ello, hemos de distinguir entre el valor de la muerte y el valor de los muertos, que no es sustancialmente lo mismo. ¿La muerte da miedo? ¿Por qué? La muerte da la certeza del final, de un final del que no se regresa. Dejando al margen las creencias en la reencarnación, la muerte deja siempre la puerta cerrada. Una puerta en la que no se sabe qué hay detrás. Según las creencias de cada cual, el sentido de la muerte varía. Con la llegada del catolicismo, la muerte es vista como la sentencia, el momento del juicio final. Y que nos juzguen siempre es peligroso. He ahí los primeros miedos. En el temor hacia lo desconocido, hacia la incertidumbre, radica otra de las causas de este miedo.

En la época medieval, la muerte era vista como un acto natural y un evento público, donde el moribundo, en el seno del hogar, era acompañado de familiares y amigos en su último trance. El moribundo sabía que iba a morir y esperaba junto a sus acompañantes el momento justo con serenidad. El historiador Philippe Ariès le da a esta muerte el nombre de “muerte domesticada”, una muerte aceptada.

Con el advenimiento de la Iglesia, el miedo aumenta; la muerte no sólo se vuelve más temida, sino que al querer alejarla de la vida, se aparta de la sociedad, dejando de ser un acto público para convertirse en un acto privado. Estos pasos se han venido a llamar la “muerte de sí mismo” y la “muerte del otro”, en el sentido de vivirse como una experiencia, no ya colectiva, sino cada vez más individual.

Sin embargo, en la sociedad contemporánea, el miedo a la muerte no está ya ligado a la muerte en sí, sino, por un lado, a la muerte de los demás, y por el otro, al momento propio de morir. Es decir, en ambos casos, al miedo está ligado al sufrimiento. En el primer caso, es el miedo al dolor que nos causa la ausencia de aquellos con quienes compartimos la vida; en el segundo caso, es el sufrimiento físico que nos puede causar nuestra propia muerte. Los avances médicos han jugado un papel fundamental en nuestra relación con la muerte, el médico es visto como una especie de hechicero al que le asignamos la obligación de prolongar nuestra vida, y, además, en condiciones óptimas.

El escritor David Rieff reflexiona sobre esto en su libro Un mar de muerte, donde describe cómo se desarrollaron los últimos meses de vida de su madre, la célebre periodista Susan Sontag, que padecía un cáncer terminal. El autor, aludiendo a las esperanzas que caracterizaron, hasta el último momento, las relaciones de ésta con sus médicos, escribe: “¿Cómo reconciliar la realidad de la mortalidad humana con la reinante suposición en el mundo rico de que toda enfermedad ha de tener remedio, si no en la actualidad en algún momento futuro?”. La relación con los médicos deja al descubierto nuestra negación a reconocer que tenemos que morir de algo. En este sentido, Rieff añade: ¿se habría resignado (su madre) a fallecer de algo distinto tiempo después?”. La muerte da miedo porque no es aceptada. A la incertidumbre y al miedo al sufrimiento, se le suma el dilema que nos causa no estar presentes en el futuro, no ser partícipes del mañana.


Es cierto que la muerte nos trae la certeza, y que cuando la asumimos, nos hacemos más fuertes ante ella. Pero no es suficiente. Por lo tanto, nos da miedo la muerte, pero no ya en el sentido clásico: ésta deja de ser una enemiga en el momento en el que la vemos llegar. Los niños de la época medieval danzaban alrededor del lecho del moribundo; los cementerios eran lugar de encuentro. Ahora la muerte es algo oscuro que queremos alejar de nosotros lo máximo posible. Los niños no viven con la muerte, pero se hacen adultos el día que ven a esa desconocida cara a cara, cuando en su entorno, que pensaban fuese eterno, aparece la muerte.

“Yo no tengo miedo de la muerte, tengo miedo de morir”, repetía el periodista Indro Montanelli. A nosotros nos da miedo sufrir, física y emocionalmente. No nos da miedo la muerte; nos aterroriza el olvido: olvidarnos de los demás y que nos olviden. No nos da miedo la muerte; nos da miedo la ausencia, el no estar presentes. Nuestra actual relación con la muerte deja patente, por tanto, que lo que nos da miedo –sufrir, olvidar...– no es morir, es vivir.


"La paura di vivere”

Sebbene ineluttabile, sebbene risaputa, la morte sempre arriva in modo imprevisto. E nonostante questo, la morte non lascia dubbio, la morte dà certezze; di fatto, l'unica certezza.

Immagina un due di novembre: i cimiteri sono pieni. I morti cercano il loro ruolo essenziale nella necessità di mantenersi nel ricordo dei viventi. Oppure sono i vivi che hanno bisogno di tenere viva la memoria dei loro morti? Festeggiare il giorno dei morti é fare presente che tale rapporto si basa sulla memoria. Ma questo non è sempre stato così.


L´atteggiamento degli uomini di fronte alla morte è cambiato nel corso del tempo. Ma per questo, dobbiamo distinguere tra il valore della morte e il valore dei morti, che non è sostanzialmente lo stesso. La morte fa paura? Perché? La morte è la certezza della fine, una fine che non ha ritorno. Lasciando stare il pensiero della reincarnazione, la morte lascia sempre la porta chiusa. Una porta dietro cui nessuno sa che cosa c'è. Secondo le credenze di ognuno, il senso della morte varia. Con l'arrivo dei cattolici, la morte é sentita come la condanna, il momento del giudizio finale. E´cio che ci sentenziano é sempre pericoloso. Sono queste le prime paure. Nel timore degli sconosciuti, nell’incertezza, si trovano le altre cause di queste timore.

In epoca medievale, la morte é stata vista come un atto naturale e un evento pubblico, dove il morente, in casa, è stato accompagnato da parenti e amici nella sua ultima trance. Il moribondo sapeva che stava per morire ed aspettava con i suoi compagni il momento con serenità. Lo storico Philippe Ariès dà a questa morte il nome di “morte addomesticata”, una morte accettata.

Con l'avvento della Chiesa, aumenta la paura; la morte non solo diventa più spaventosa, ma al volere allontanarla dalla vita, ci si allontana anche dalla società, finendo di essere un evento pubblico per diventare in un atto privato. Questi passaggi sono stati chiamati la “morte di sé” e la “morte dell´altro”, indicando un´ esperienza vissuta, non più collettiva, ma ogni volta più individuale.

Nella società contemporanea, la paura della morte non è più legata alla morte stessa, ma, alla morte degli altri da un lato, e al tempo di morire dell´ altro. In entrambi i casi, la paura é legata alla sofferenza. Nel primo caso, è la paura del dolore provocato dall´ assenza di coloro con i quali condividiamo la vita; nel secondo caso, é la sofferenza fisica che può causare la nostra propria morte. I progressi della medicina hanno svolto un ruolo fondamentale nel nostro rapporto con la morte, il medico è visto come un stregone al quale è stato assegnato il compito di estendere la nostra vita in ottime condizioni.

Lo scrittore David Rieff affronta questo argomento nel suo libro Swimming in a Sea of Death, dove descrive come sono stati gli ultimi mesi di vita di sua madre, la celebre giornalista Susan Sontag, che è stata colpita dal cancro terminale. L'autore, facendo riferimento alle aspettative che hanno caratterizzato, fino all´ ultimo momento, il raporto di quest'ultima con i loro medici, scrive: “Come possiamo conciliare la realtà umana della mortalità con l'ipotesi prevalente nel mondo ricco che ogni malattia deve avere una misura correttiva, se non sono presenti al momento, in un tempo futuro?”. Il rapporto con i medici mostra il nostro rifiuto a riconoscere che dobbiamo morire di qualcosa. In questo senso, Rieff aggiunge: “si sarebbe rassegnata (sua madre) a morire di qualche altra cosa più tardi?”. La morte fa paura perchè non è accettata. L'incertezza e la paura della sofferenza sono aggravate dal dilemma, che tuti noi abbiamo, che purtroppo non saremo presenti nel futuro, e che quindi non saremo partecipe del domani.


É vero che la morte porta la certezza, e che quando la assimiliamo, diventiamo più forti di fronte a lei. Ma non è sufficiente. Nonostante tutto ciò siamo tutt´ora spaventati dalla morte, ma non nel senso classico del termine: essa cessa di essere una nemica nel momento in cui la vediamo arrivare. I bambini del Medioevo danzavano intorno al letto del morente; i cimiteri erano luogo di incontro. Adesso la morte è qualcosa di buio che vogliamo allontanare da noi il più possibile. I bambini non vivono con la morte, ma diventano adulti il giorno in cui vedono questa sconosciuta faccia a faccia, cioè quando nel loro ambiente, che pensavano fosse eterno, appare la morte.

“Io non ho paura della morte, ho paura di morire”, ripeteva il giornalista Indro Montanelli. Noi abbiamo paura della sofferenza, fisicamente ed emotivamente. Non abbiamo paura della morte, ci terrorizza la dimenticanza: dimenticarci degli altri ed essere dimenticati. Non abbiamo paura della morte, temiamo l'assenza, non essere presenti. Il nostro attuale atteggiamento con la morte rende chiaro, quindi, che quello di cui realmente abbiamo paura –soffrire, dimenticare...– è di vivere, non di morire.

No hay comentarios: